AGI - Anche tra due senzatetto, che condividono semplicemente una coperta sotto la quale dormire, può esserci una convivenza in termini giuridici. Lo stabilisce la vicenda processuale, conclusa oggi con un patteggiamento, di due clochard che hanno condiviso per due anni una coperta nel parco di Largo Marinai d'Italia a Milano.
L'aspetto interessante è che E.A. ha concordato davanti alla prima sezione della Corte d'appello la pena di tre anni e sei mesi in continuazione con una precedente condanna nel processo in cui era accusato, si legge nel capo d'imputazione, di maltrattamenti in famiglia ai danni di A.B. "alla quale era legato da un'intima amicizia e con la quale condivideva una tenda procurandole penose condizioni di vita attraverso reiterate violenze fisiche e psicologiche, pressoché quotidiane, costringendola a vivere in un clima costante di ansia e timore per la propria incolumità a tal punto da ritenere che, se lo avesse denunciato, sarebbe stata uccisa". In aula c'è stata battaglia tra parte civile e difesa sul tema se potesse essere definita in termini giuridici una "convivenza" la relazione tra l'uomo e la donna transessuale.
La tesi della difesa: convivenza non è coabitazione
L'avvocata Maria Laura Ghitti, legale di E.A., aveva scritto nella memoria in vista dell'appello, letta dall'AGI, che "la convivenza non può essere confusa con la coabitazione o, come afferma il giudice, con la spartizione della stessa coperta o degli stessi 'spazi di riposo', in quanto la maggior pena che il legislatore prevede nel delitto di maltrattamenti trova infatti la sua giustificazione non solo e non tanto nella mera condivisione di spazi abitativi bensì nella tensione psicologica patita dalla persona offesa in ragione della particolare relazione interpersonale che la lega al soggetto maltrattante". Per la difesa, inoltre, il giudice Alberto Carboni non avrebbe tenuto conto che la stessa vittima dei maltrattamenti aveva negato di avere una relazione sentimentale con E.A e che i due non avevano un rapporto esclusivo.
La posizione della parte civile: familiarità del rapporto
Per Patrizio Nicolò, legale della persona transessuale, "il fatto che l'imputato avesse un ulteriore partner non esclude la familiarità del rapporto creato con la parte lesa: sono ben pregne le cronache di soggetti che hanno due vite, due mogli, due famiglie, senza che l'esistenza della prima escluda la seconda. L'imputato aveva creato due relazioni affettive e le portava avanti contemporaneamente, senza nulla togliere alle aspettative di vita comune ingenerate nella mente della persona offesa".
La decisione della Corte: vincoli affettivi e assistenza
La sentenza ha stabilito che l'articolo del codice penale sui maltrattamenti in famiglia "è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l'insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale".
"Nel caso di specie, pur non risultando l'imputato e la parte offesa parte di uno stesso nucleo familiare, né residenti in una medesima abitazione, in quanto entrambi senza fissa dimora, non può dubitarsi dell'integrazione dell'elemento oggettivo del reato contestato. Invero, l'imputato condivideva con la parte offesa la stessa coperta nel parco e dormiva con lei da due anni. Ciò, a prescindere dal fatto che i due si considerassero fidanzati, implica la sussistenza di un rapporto affettivo stabile e radicato, tale da determinare una reciproca aspettativa di mutua solidarietà e di affetto. Le condotte descritte dalla parte offesa in quanto inscritte nell'alveo di un rapporto affettivo rilevante, che si estrinseca nella condivisione degli spazi di vita e di riposo nel parco Formentano, integrano pertanto il reato". Tra la sentenza di primo grado e l'appello, E.A., dopo un periodo trascorso a San Vittore, ha iniziato un percorso di recupero in una comunità.